I secondi piatti
Come già detto il piatto principe di carne nella Valpolicella è il lesso.
Ancora oggi nessuna vera festa familiare è tale se non ha il piatto di lesso. gallina, manzo, lingua e cotechino.
Praticamente sconosciuto l’arrosto, che faceva la sua apparizione esclusivamente sulla mensa dei signori o ai pranzi di nozze: naturalmente si parla quasi esclusivamente di animali da cortile: polli, anitre, conigli.
L’inverno portava l’uccisione del maiale, ma tutta la carne veniva conservata, solo il fegato veniva servito con le cipolle.
I salumi, come la celebre soppressa, ancora oggi gradita ed apprezzata, le salsicce e il cotechino, il quale sta vivendo un felice periodo di ritorno, non hanno goduto della valorizzazione che abbiamo visto nei vini DOC. Sono caduti anzi nell’oblio gli altri insaccati poveri, fatti con gli scarti del maiale: le morette (carne sanguinolenta, pezzi di fegato e cotiche) e i brigaldoli (sangue, farina, zucchero, uva passa e chiodi di garofano).
Le uova erano disponibili quasi sempre data la presenza di galline nei cortili di casa. il loro uso era continuo, ma con poca fantasia: al mattino venivano “sudate” cuocendole nella cenere calda del focolare oppure strapazzate con la salsiccia come robusta colazione solo per gli uomini validi che partivano per il lavoro; per i convalescenti e i malati si “sbattevano” con lo zucchero e il caffè e qualche rara volta si arrivava allo zabaione con il vino bianco, ma solo se l’occasione era particolarmente fausta.
Le uova sode venivano usate tutto l’anno, sempre condite con olio, sale e pepe e d’inverno erano d’obbligo con i broccoli; ma “i ovi duri” lo erano veramente con il tuorlo che assumeva sempre una vaga colorazione verdastra: altro che i mitici otto minuti!
Un discorso a parte meritano le salse, la tanto declamata pearà fatta col pane raffermo, il brodo, il midollo di bue, il formaggio e il pepe, la salsa verde col prezzemolo, il pane bagnato nell’aceto, l’uovo sodo e l’acciuga, il cren (radice di rafano tritata), la panà, pane inzuppato e passato in un filo d’olio, cibo per i bambini e per gli anziani sdentati
La polenta accompagnava l’intera giornata: al mattino, come colazione, veniva scaldata sulle brace con la salsiccia o tagliata a fette nel latte, oppure era cotta nel latte e cosparsa di zucchero (la dimenticata mosa), e alla sera fresca, comunque quasi sempre con il pocio, a volte solo burro abbrustolito e formaggio.
Un piatto festoso nelle sere d’inverno era la polenta consa: la massaia scodellava la polenta fumante nei piatti, soprattutto dei bambini, arrostiva le salsiccie nel burro, e ve le sbriciolava sopra, con una gran manciata di formaggio.
C’era poco pesce sulle tavole della Valpolicella (il mare, il lago, il fiume, che ci sembrano ora così vicini, erano mondi sconosciuti e irraggiungibili), ma il venerdì di magro era sempre rispettato: il baccalà, così comune nel Veneto, ma qui fatto con il latte, l’uva bianca e la scorza di limone, la renga, con i sottaceti e l’alloro, e le sardele sotto sale, di rigore, in quaresima con i bigoli fatti al torchio con farina di grano tenero.
Un ricordo per i gamberi d’acqua dolce, ora timidamente riapparsi nei nostri vaj dopo il sacco ecologico dei decenni scorsi: li raccoglievano i giovani di notte percorrendo gli alvei dei torrenti con le lampade al carburo e venivano lessati nell’acqua bollente ancora vivi e diventavano rosso fuoco. Li potremmo chiamare l’aragosta dei poveri.
La selvaggina era limitata agli useleti: arrostiti con olio, burro, salvia, abbondanti pezzi di lardo e serviti sempre con l’onnipresente polenta.
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