Cibo e memoria
Il binomio cibo memoria ha non solo illustri precedenti letterari, ma ormai è quasi un luogo comune e ogni esperienza gustativa viene caricata di capacità rievocative di una sensorialità autentica in quanto antica e pressoché scomparsa. In buona parte ciò dipende dal sospetto o da una rassegnata constatazione che la civiltà tecnologica ci abbia sottratto sapori e odori e che dei cinque sensi si sia salvata soltanto la vista. In verità l’urbanizzazione di solo qualche decennio fa ha tentato di cancellare il più possibile l’impronta contadina, forse per dare la sicurezza che si superavano una volta per sempre anche i disagi e la miseria del passato.
E la misura del nuovo benessere è diventata la comodità, l’eliminazione del lavoro manuale, del sudore, la separazione fra vivere e lavorare. Ed ecco i nuovi materiali, formica, plastica, acciaio inox, tecnologici e luccicanti. Ed ecco i detersivi, i deodoranti, i saponi liquidi, i profumi esotici. Ed ecco i cibi sani, lucidi e colorati, sempre freschi perché di pronto consumo, sempre appetibili in quanto segno di successo sulla fame ancestrale, non da annusare o gustare, ma da mettere in tavola, in bella mostra, come gioielli o vestiti costosi.
Ovviamente la messa in mostra dei simboli della vittoria sulla miseria non si è limitata al cibo e a forza di mostrare si è creduto che l’unico senso sopravvissuto fosse la vista. Ma anche la vista oggi è vittima della voglia di comodità, passare da vedere a guardare e osservare è uno sforzo e si preferiscono perciò immagini pronte per l’uso, cioè già preparate per essere comprese per intero: immagini mediate per una vista immediata. Ma il sospetto che anche la vista sia poco affidabile deve venirci dalla marea di consigli, provenienti dalla pubblicità, cioè dai promotori stessi dei consumi, di non fidarci delle apparenze. Un esempio soltanto: come sapere se un uovo è fresco?
Ci sono mille modi, ci spiegano oggi alla TV: ma Giovanni ed Emilio che ancora prima della guerra, poco più che bambini, giravano per le case con i cesti a spalle a vendere biancheria per essere pagati con centinaia di uova rispondono semplicemente: “Si vedeva benissimo!”.
Insomma consumiamo immagini con la stessa inconsapevolezza o incoscienza di qualsiasi altro prodotto e da bravi consumatori dobbiamo soltanto mettere in fila sempre nuove e comode sensazioni di generico piacere, tanto più rapide e numerose quanto è minore la nostra capacità di sentire, dato che nessuna delle nostre percezioni è abbastanza vigorosa e durevole da trascinarsi dietro un qualsiasi filo di sensazioni derivate.
I sensi vanno in poche parole rieducati e riportati alla piena funzionalità: bisogna prendersi il tempo, ricostruirsi attorno l’ambiente e una fitta rete di richiami.
La ricerca dei sapori antichi, più che come archeologia sensoriale, va valorizzata come percorso di recupero di valori non solo sensoriali.
Se si prova ad esaminare ciò che si muove intorno al cibo nel mondo contadino tradizionale, almeno nelle situazioni in cui lo spettro della fame non era drammaticamente incombente, si colgono elementi interessanti anche per noi.
Intanto il pranzo, il pasto ha sempre avuto una sua ritualità e solennità: ci si segna, un tempo il pranzo della festa del patrono si faceva nelle chiese e si invitavano i parenti dai paesi vicini.
Non si deve pensare che la cucina tradizionale fosse monotona e routinaria: gli ingredienti erano poveri ma vari, a seconda dei climi e delle stagioni, e preparati cercando di sfruttarne tutte le possibilità, basti pensare alle minestre di verdura, alla stessa polenta, ai condimenti. Ma tutta la cucina popolare è sotto il segno delle piccole differenze: la pearà, ad esempio, è documentata da almeno 6 – 7 secoli, ma ogni contrada la cucina alla sua maniera e la disputa sulla vera ricetta è ancora aperta e lo sarà sempre, al pari di quella sul dialetto, dato che non esiste la parlata più giusta.
Inoltre c’era sempre un legame dei commensali con i cibi in tavola: la verdura veniva dal proprio orto, la carne dal cortile o dalla stalla, il pane era cotto nel forno della corte o dal fornaio del paese in cambio di farina e legna. Ma i riferimenti affettivi erano spesso così forti e diffusi da coprire l’intero territorio praticato: il cipresso davanti a casa piantato dal nonno, il pero di quel filare di una varietà rara, la vigna di uva moscata, il capitello di contrada, la fontana di acqua fresca. Tutto un territorio era adottato e allevato con cura perché dentro c’era un po’ d’anima di ognuno. Questa è forse la dimensione che possiamo, dobbiamo recuperare: mettere un po’ d’anima, d’umanità, nelle cose, nei gesti, nei cibi.
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