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Il vino nella tradizione popolare

Come per molte altre tradizioni, anche per il vino vale la regola dei Santi, cioè le date significative sono quelle di feste religiose importanti: si vendemmiava intorno alla Madonna del Rosario (prima domenica di ottobre), intorno all’Immacolata (8 dicembre) si pigiava l’uva del recioto che veniva imbottigliato il Venerdì Santo. Se per noi oggi sembra eccessivamente precoce tale conclusione del ciclo di produzione del recioto, occorre forse pensare che la bassa produttività delle vigne, sempre in mezzo al seminativo, doveva forse dare un grado zuccherino più alto e poi andava di moda un recioto spumante con una schiuma che doveva sciogliersi rapidamente nel bicchiere. Molto apprezzato era anche il recioto bianco.

Ma il recioto non era l’unico prodotto delle vigne. Intanto bisognava mettere da parte l’uva riservata al parroco: una persona dotata di carretto si incaricava di passare per le famiglie della contrada per la questua, cioè una quantità d’uva proporzionale al raccolto, che veniva poi venduta a una cantina del paese e il ricavato andava al parroco. Il sacrestano doveva provvedere da solo alla sua questua, girando personalmente casa per casa. C’era poi da preparare l’uva perla Messa, che veniva consegnata direttamente in canonica.

Il vino per il consumo della famiglia, come ha già scritto qualche fascicolo fa Francesco Quintarelli, era ricavato dalle sernaie, cioè gli scarti della uva da mettere a riposo e grappoli non perfettamente maturi: per fortuna qualche cesto di uva passabile andava poi a sanare in parte il miscuglio.

Ma era la graspìa il “vino” da bere in casa, la vera bevanda dissetante per tutta la famiglia, con potere diuretico e depurativo, tanto che veniva data anche ai bambini (e la pipì era poi dispersa come fertilizzante). Fare la graspìa era molto semplice: le vinacce ben torchiate del recioto venivano sistemate in una tinozza e periodicamente irrorate d’acqua, il liquido che ne risultava era la graspìa. Molte famiglie, per risparmiarsi la fatica di procacciare l’acqua d’inverno lasciavano la tinozza sotto i canali di gronda e una delle leccornìe più ambite dai bambini di allora erano i ghiaccioli di graspìa che si formavano con il gocciolìo della spina della tinozza: se poi cadeva la neve c’era subito pronta la granita di stagione. Chi aveva una buona cantina poteva anche mantenersi la sua graspìa fino all’epoca della raccolta delle ciliegie.

Con queste consuetudini, l’attrezzatura e gli spazi riservati alla cantina, in una famiglia media prima dell’età industriale, erano molto ridotti: nella tinassara qualche brento (botte senza coperchio) per la fermentazione, qualche botte di varie dimensioni e una brentèla trasaora (tinozza per travasi) in caneva o cania, pochi attrezzi minuti, come la lora (imbuto per vino in un unico pezzo di legno), la tramòsa (imbuto largo per mosto), el tortor (imbuto), la brentina o gronzàl (tinozza a forma conica di 60-70 litri, dotata di legacci per essere caricata a spalle) per trasferire da una botte all’altra mosto o vino, la mostaròla (tinozza a forma rettangolare per la pigiatura e quindi col fondo a listelli distanziati) a volte era chiesta in prestito dai vicini.

In molte case c’erano pure gli attrezzi da falegname per riparare o farsi in proprio le botti.

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